Cari amici,
per una volta vi scrivo in merito a un tema - la riforma del diritto del lavoro - apparentemente lontano da quello dell'immigrazione. In realta', essendo il lavoro uno degli aspetti principali della vita degli stranieri in Italia, le interazioni tra i due temi sono tutt'altro che trascurabili.
Nel suo discorso programmatico al Senato, il Presidente del Consiglio Monti ha affermato:
"Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione. Le riforme in questo campo dovranno avere il duplice scopo di rendere piu' equo il nostro sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale e anche di facilitare la crescita della produttivita', tenendo conto dell'eterogeneita' che contraddistingue in particolare l'economia italiana. In ogni caso, il nuovo ordinamento che andra' disegnato verra' applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere."
Parole di questo genere provocano spesso, soprattutto a sinistra, un principio di mal di stomaco, perche' vi si legge - per dirla senza giri di parole - un attacco all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Naturalmente, stando a quanto Monti afferma, le eventuali modifiche non intaccherebbero la posizione di chi oggi e' coperto dalla tutela dell'articolo 18 ("non verranno modificati i rapporti di lavoro regolari e stabili in essere"). Si teme pero', a sinistra, che la protezione accordata al lavoratore che stipuli un contratto all'indomani dell'eventuale riforma risulti assai piu' debole di quella oggi garantita da quell'articolo.
Molti - Pietro Ichino, soprattutto - fanno osservare come la protezione dell'articolo 18 sia riservata, oggi, solo a una frazione dei lavoratori, restandone esclusi sia i dipendenti di imprese con meno di sedici dipendenti, sia i lavoratori con i quali l'imprenditore abbia stipulato un contratto a termine o altro contratto atipico: e' a questa esclusione che si riferisce Monti quando parla di mercato del lavoro duale. A queste osservazioni, pero', alcuni dei difensori dell'articolo 18 replicano che il superamento del mercato duale va perseguito con l'estensione erga omnes della cosiddetta tutela reale (quella appunto garantita dall'articolo 18).
Ichino, invece, propone (A.S. 1873; http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2011/novembre/ddl-1873.html) l'istituzione, per i futuri rapporti di lavoro, di un unico tipo di contratto (salvo eccezioni qui trascurabili). Si tratterebbe di un contratto a tempo indeterminato, sottoposto a una disciplina del recesso per motivi economici da parte del datore di lavoro significativamente diversa da quella prevista dalle disposizioni oggi in vigore.
A me sembra che la protezione offerta dal modello proposto da Ichino sia preferibile, dal punto di vista del lavoratore, non solo rispetto al nulla previsto oggi per la maggior parte dei contratti atipici (si pensi alla conclusione naturale di un contratto a termine: saluti a casa, e chi si e' visto si e' visto...), ma anche - e su questo chiedo il vostro giudizio critico - rispetto alla protezione garantita, per il lavoratore subordinato a tempo indeterminato, dalle norme vigenti.
Mi spiego (con imprecisione da fisico), concentrandomi sul licenziamento per motivi economici, dal momento che ne' l'impianto del licenziamento per grave inadempimento del lavoratore (giusta causa) ne' le sanzioni contro il licenziamento discriminatorio vengono toccati in modo rilevante dalle proposte di riforma.
I. Le norme vigenti
Il licenziamento individuale per motivi economici, per essere legittimo, deve essere sorretto da "ragioni inerenti all'attivita' produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (art. 3 L. 604/1966). Il lavoratore licenziato puo' impugnare il licenziamento, ed e' il giudice a valutare se sussista o meno una di queste ragioni - se sussista o meno, cioe', il cosiddetto giustificato motivo oggettivo.
Nel caso in cui il giudice ritenga non adeguatamente giustificato il licenziamento, le conseguenze sono molto diverse a seconda che si applichi o meno l'articolo 18. Se non si applica (impresa con un numero di dipendenti non superiore a 15), il datore di lavoro puo' scegliere tra la riassunzione del lavoratore (senza diritto a risarcimento per la retribuzione perduta) e la corresponsione di un'indennita' di entita' fissata dal giudice in misura compresa di norma tra 2.5 e 6 mensilita'.
Se l'articolo 18 si applica (impresa con piu' di quindici dipendenti), il lavoratore e' reintegrato nel posto di lavoro e ha diritto ad un risarcimento commisurato alla mancata retribuzione dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione. Il lavoratore puo' inoltre optare, in luogo della reintegrazione, per una ulteriore indennita' pari a 15 mensilita' della retribuzione globale. In media, data anche la durata dei processi, si stima che al datore di lavoro un licenziamento illegittimo costi circa 34 mensilita'.
Di solito, il dibattito sul tema si sofferma sull'evidente disparita' tra le due categorie di lavoratori (i dipendenti di grandi aziende e i dipendenti di piccole aziende); disparita' che diventa abisso - come detto - quando si guardi a lavoratori che prestano la loro opera nell'ambito di un contratto di lavoro subordinato a termine o di un contratto di lavoro (formalmente) autonomo, quale la collaborazione a progetto.
Raramente si fa caso all'ipotesi fin qui non considerata: che il giudice, cioe', ritenga adegatamente motivato il licenziamento. In questo caso, il licenziamento e' pienamente efficace e al lavoratore non spetta alcuna forma di indennita', ne', ovviamente, di risarcimento del danno per mancata retribuzione.
Il punto su cui voglio richiamare la vostra attenzione e' che a decidere sulla validita' di un motivo afferente all'organizzazione di un'impresa e' chiamato un giudice. Ora, salvo lodevoli eccezioni, un giudice si intende di organizzazione aziendale quanto io mi intendo di teatro giapponese. Per di piu', non sapendo che pesci prendere, tende ad allinearsi ad orientamenti consolidati della giurisprudenza che, proprio perche' consolidati, affondano le loro radici in contesti economici remoti e completamente diversi da quello nel quale si inserisce il caso da giudicare.
Notate che una decisione errata del giudice provoca un danno soggettivamente contenuto se il soggetto danneggiato dall'errore e' l'impresa. Ne provoca uno enorme se ad essere danneggiato e' il lavoratore licenziato.
Chi di noi definirebbe adeguata la tutela della salute offerta da un ospedale dotato di strutture d'avanguardia, nel quale pero' la terapia venga decisa tirando i dadi?
II. La proposta di Ichino (per come l'ho capita)
Ichino propone che i contratti di lavoro siano stipulati, a partire dalla data di entrata in vigore dell'eventuale riforma, nella forma di contratti a tempo indeterminato.
Il licenziamento per motivi economici sarebbe sottratto, per i primi vent'anni di anzianita' di servizio del lavoratore, al vaglio del giudice, a meno che il lavoratore non lo impugni come licenziamento discriminatorio. In caso, invece, di lavoratore con oltre vent'anni di anzianita', il carattere discriminatorio verrebbe presunto, con conseguente applicazione, a meno che il datore non dimostri, in giudizio, l'esistenza del giustificato motivo oggettivo, delle sanzioni oggi previste dall'articolo 18 (risarcimento del danno per la retribuzione non corrisposta e reintegrazione nel posto di lavoro o, a scelta del lavoratore, corresponsione di ulteriore indennita').
In tutti i casi (a prescindere dalla soglia di anzianita' ventennale), il datore di lavoro dovrebbe comunque corrispondere al lavoratore un'indennita' pari a una mensilita' per ogni anno di anzianita' di servizio maturato.
Tra datore di lavoro e lavoratore licenziato (solo, pero', nel caso di imprese con piu' di quindici dipendenti) verrebbe stipulato un contratto di ricollocazione. Nell'ambito di questo contratto, il datore di lavoro sarebbe tenuto a garantire al lavoratore assistenza intensiva (anche mediante formazione e riqualificazione) nella ricerca di nuova occupazione. In caso di lavoratore con almeno due anni di anzianita' sarebbe garantita anche l'erogazione di una indennita' complementare di disoccupazione pari al 90% della retribuzione per il primo anno, all'80% per il secondo, al 70% per il terzo.
(Per inciso, queste disposizioni si applicherebbero anche al caso di licenziamento disciplinare ritenuto illegittimo dal giudice (assenza di una giusta causa), per il quale il datore di lavoro abbia optato per la corresponsione dell'indennita' sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro.)
A me sembra che un impianto di questo genere abbia il grande pregio della eliminazione della aleatorieta' di un giudizio non sorretto da competenza tecnica; al punto che non sono affatto certo che il lavoratore ipoteticamente assunto a tempo indeterminato in una grande azienda il giorno prima della data di eventuale entrata in vigore di una tale riforma (con diritto alla tutela da articolo 18) avrebbe da rallegrarsi per non essere stato assunto il giorno dopo quella data (con diritto alla tutela indennitaria e al contratto di ricollocazione).
Se fossi nei sindacati e nei partiti di sinistra, mi darei quindi da fare non per rifiutare o contrastare la riforma, ma, caso mai, per spuntare dalla controparte imprenditoriale o politica contenuti quantitativamente piu' favorevoli (riguardo a estensione dell'applicazione del contratto di ricollocazione, oneri del datore nell'ambito di tale contratto, importo dell'indennita' di licenziamento, etc.).
In particolare - e qui mi immergo nuovamente nella questione immigrazione - penso a come sarebbe opportuno che forme di indennita' e ricollocazione venissero estese al settore del lavoro domestico - un settore per il quale il licenziamento non prevede alcuna forma di protezione per il lavoratore. Non ricordo di aver mai sentito voci di protesta sul punto nei dibattiti relativi alla riforma del mercato del lavoro.
Rifiutare la riforma significa - temo - rinviarla a un tempo in cui a vararla sara' la sola destra, con contenuti probabilmente assai meno vantaggiosi per i lavoratori.
Vi saro' grato se mi farete avere le vostre osservazioni sulla materia.
Cordiali saluti
sergio briguglio